“L’ULTIMO AMORE DI CLAUDE MONET”: LE NINFEE DELL’ORANGERIE (PARTE PRIMA) IL RICORDO DI RENÉ GIMBEL E FRANÇOIS THIÉBAULT-SISSON

“L’ULTIMO AMORE DI CLAUDE MONET”: LE NINFEE DELL’ORANGERIE (PARTE PRIMA)

IL RICORDO DI RENÉ GIMBEL E FRANÇOIS THIÉBAULT-SISSON

di Filippo Musumeci

«Che c’è da dire di me? Che cosa può esserci da dire, vi chiedo, di un uomo al quale non c’è null’altro che la sua pittura che gli interessi al mondo, oltre al suo giardino e ai suoi fiori[1]» (Claude Monet)

35

 Era il 19 agosto 1918 quando il mercante d’arte René Gimpel, su iniziativa del collega Georges Bernheim, prese posto con questi in carrozza alla volta di Vernon, a cinque chilometri dalla località di Giverny, ove il maestro Monet, già settantottenne, lavorava trepidante a quel titanico progetto delle “Grandi Decorazioni”, le quali prenderanno forma nelle ventidue tele a olio delle Ninfee – alte due metri, singole o riunite, per una lunghezza totale di quasi cento metri – e che il 17 maggio 1927 verranno presentate al pubblico presso le due sale ellittiche dell’Orangerie des Tuileries di Parigi, secondo la volontà del suo stesso autore e ove tutt’oggi restano esposte.

Nonostante lo sconforto per i problemi alla vista, Monet aveva saputo tener fede alla promessa fatta all’amico Gustave Clemenceau – uomo politico e di cultura, conosciuto con il nomignolo di “il Tigre” per via del temperamento autorevole e la vena alquanto polemica – il 12 novembre 1918, all’indomani dell’armistizio, di donare allo Stato francese inizialmente otto tele con soggetto le Ninfee.  Nell’ottobre di due anni dopo Monet ampliava il progetto, decidendo di realizzare dodici, anziché otto, pannelli a olio, ma a condizione che questi venissero ubicati in modo permanente in un locale ex novo nel giardino dell’Hôtel Biron, oggi Musée Rodin. Ma come ben si sa, questo locale non prenderà forma e, in alternativa, si opterà, come detto, per le due sale ellittiche dell’Orangerie delle Tuileries, ma alle quali, su esplicita richiesta di Monet, saranno apportate delle importanti modifiche funzionali a ospitare, infine, il corpus delle ventidue “Grandi Decorazioni” delle Ninfee.

32

31

Il maestro impressionista non riuscirà a presenziare alla cerimonia d’inaugurazione della sua opera grandiosa. Egli si spegnerà il 5 dicembre 1926 all’età di ottantasei anni, stanco e malato. Ma restano le testimonianze di amici, colleghi ed estimatori sull’impresa titanica compiuta dal vecchio “leone parigino”, come quella in data 19 agosto 1918 del mercante d’arte alsaziano René Gimpel, che qui si riporta:

“Seguiamo per un paio di chilometri la Valle della Senna, così bella in questo luogo, e si raggiunge il famoso villaggio in cui molti artisti sono raggruppati attorno al maestro. Vedo grandi finestre che si aprono in diverse case coloniche. Qui ci troviamo di fronte al muro di Claude Monet, trafitto con una grande porta verde e un po’ più avanti un’altra porta molto piccola, troppo verde, e la apriamo per entrare nel giardino di Monet così spesso descritta. Mi dispiace di essere in completa ignoranza dei nomi di fiori e mi ritrovo in grado di assegnare loro un nome. Ci vorrebbe un Maeterlinck per un tale giardino che è come nessun altro, in primo luogo perché è composto solo di fiori semplici […]. Credo che nessuna fioritura sia sotto un metro. Alcuni fiori, alcuni dei quali sono di colore bianco, altri di gialli, sembrano margherite giganti e andare fino a due metri. Questo non è un campo, ma una foresta vergine di fiori con colori sempre vivaci; nessuno è rosa o blu, sono rossi, sono blu. Come Bernheim mi ha parlato di una decorazione enorme e misteriosa a cui lavora il pittore e che vorrebbe probabilmente mostrarci, mi attacco alla posizione e vinco, e ci conduce attraverso i corridoi del giardino fino uno studio di recente costruzione, costruito come una chiesa del villaggio. Al suo interno, è solo una stanza enorme con un soffitto di vetro, e qui ci troviamo di fronte ad uno strano spettacolo artistico: dinanzi a uno strano spettacolo artistico: una dozzina di tele disposte in cerchio sul pavimento, l’una accanto all’altra, tutte larghe circa due metri e alte un metro e venti; un panorama fatto d’acqua e ninfee, di luce e di cielo. In quell’infinità, acqua e cielo non avevano né inizio né fine. Ci parve d’essere presenti a una delle prime ore della nascita del mondo. L’insieme è misterioso, poetico, incantevolmente irreale, e da una sensazione strana: un misto di disagio e di piacere al vedersi circondati da ogni parte dall’acqua[2]”.

34

«Lavoro tutto il giorno a queste tele — rispose Monet — me le passano una dopo l’altra. Nell’atmosfera riappare un colore che avevo scoperto ieri e abbozzato su una delle tele. Immediatamente il dipinto mi viene dato e io cerco il più rapidamente possibile di fissare in modo definitivo la visione, ma di solito essa scompare velocemente per lasciare il posto a un altro colore già registrato alcuni giorni prima in un altro studio che mi viene posto quasi istantaneamente dinnanzi; e si continua così per tutta la giornata. Tornate a farmi visita all’inizio di ottobre, le giornate si accorciano e mi prendo quindici giorni di riposo[3]».

28

Nel febbraio dello stesso 1918 il critico d’arte François Thiébault-Sisson anticipava la visita di René Gimpel e Georges Bernheim a Monet presso Giverny, di cui resta una preziosa testimonianza, pubblicata nel giugno 1927 dallo stesso Sisson e che qui si riporta per intero:

Erano i primi giorni del febbraio 1918 eppure era già primavera. Ai lati della strada che mi portava a Giverny i contorti candelabri degli olmi, alti cinquanta, sessanta piedi, erano cosparsi di puntini dorati, nuovi bocci che costituivano un ornamento adeguato di luminosità, ricchezza discreta, freschezza. Il lieve calore del sole splendente ed un cielo di un azzurro raggiante, gioioso e senza nuvole si venivano ad aggiungere al fascino di quella giornata, e fu con quella luce perfetta che vidi per la prima volta, sebbene senza ancora incompiute, quelle grandi Ninfee che il pittore avrebbe presentato tre anni dopo allo stato e che lo stato ha adesso installato nella vecchia Orangerie delle Tuileries in un’ambientazione di gusto impeccabile e semplicità estrema. Le otto tele che formano questo meraviglioso insieme sono adesso ospitate in due stanze ovali dai soffitti abbastanza bassi, le pareti sono alte tanto quanto è necessario per creare una fascia di colore grigio-beige attorno ai dipinti. […] Avvertito della mia visita, Claude Monet, mi aspettava sulla porta. Mi ricevette come soltanto lui sa fare quando è di buon umore: sorridente, lo sguardo acceso ed allegro, la sua stretta di mano calorosa e cordiale. I suoi settantotto anni non gli pesavano e non lo avevano cambiato. Si muoveva ancora con la stessa vivacità nervosa, era ancora estremamente vigile e si vestiva sempre con la stessa attenzione di una volta. Le sue mani sbucavano dalle maniche delle giacca, magre, sottili, attorno ai polsi una leggera nuvola di tulle increspato, alla vecchie maniera. Solo la lunga barba, quasi totalmente banca, che gli incorniciava il volto, simile a quello di un anziano sceicco dal naso aquilino, attestava il passare degli anni.

«Pranziamo prima» disse; «le cose serie dopo mangiato».

E nella sala da pranzo, tappezzato di giallo limone contornato di blu, dopo sono appesi acquerelli e disegni giapponesi, diede prova di un sincero appetito e vuotò il suo bicchiere come un uomo che apprezza le cose buone della vita e le assapora lentamente. Dopo il caffè andammo in giardino e dal giardino attraversammo la strada e i binari della ferrovia, dove i treni non passano più, ed entrammo nel regno delle NinfeeMentre camminavamo mi descrisse come aveva realizzato il tutto. In un prato completamente vuoto, privo di alberi ma irrigato da un braccio tortuoso e gorgogliante del fiume Epte, era riuscito a creare un giardino da favola scavando un grande stagno al centro e piantando sulle sue sponde alberi esotici e salici piangenti, i cui rami pendevano con le loro lunghe braccia verso la superficie dell’acqua. Attorno allo stagno aveva tracciato sentieri con graticci di fogliame, sentieri tortuosi che si incrociavano più volte per creare l’illusione di un grande parco. E nello stagno aveva piantato migliaia e migliaia di ninfee, varietà rare e con i più bei colori dell’arcobaleno: dal violetto, rosso e arancio al rosa, lilla e malva e infine, sopra l’Epte, nel punto dove esce dallo stagno, aveva costruito un ponticello rustico a schiena d’asino come quelli che dipingevano nelle gouaches settecentesche e sulla “toile du Jouy”. Da quando aveva finito di pagare la sua proprietà […] aveva messo da parte del danaro e, non appena si era convinto di poter di nuovo spendere, si era abbandonato a queste costose fantasie da ricco proprietario terriero dell’ancien régime. Tuttavia le tele ispirate a questo suo “ultimo amore” lo avevano più che compensato per i soldi che vi aveva investito.

36

«Qui» mi raccontò, «potete vedere tutti i motivi che ho trattato tra il 1905 e il 1914, ad eccezione delle mie impressioni di Venezia. Ho dipinto tante di queste ninfee, cambiando sempre punto d’osservazione, modificandole a seconda delle stagioni dell’anno e adattandole ai diversi effetti di luce che il mutar delle stagioni crea. E, naturalmente, l’effetto cambia costantemente, non soltanto da una stagione all’altra, ma anche da un minuto all’altro, poiché i fiori acquatici sono ben lungi dall’essere l’intero spettacolo; in realtà sono soltanto il suo accompagnamento. L’elemento base è lo specchio d’acqua il cui aspetto muta ogni istante per come brandelli di cielo vi si riflettono conferendogli vita e movimento. La nuvola che passa, la fresca brezza, la minaccia o il sopraggiungere di una tempesta, l’improvvisa folata di vento, la luce che svanisce o rifulge improvvisamente, tutte queste cose che l’occhio inesperto non nota, creano variazioni nel colore ed alterano la superficie dell’acqua: essa può essere liscia e non increspata e poi, improvvisamente, ecco un’ondulazione, un movimento che la infrange creando piccole onde quasi impercettibili, oppure sembra sgualcire lentamente la superficie conferendole l’aspetto di un grande telo di seta spruzzato d’acqua. Lo stesso accade ai colori, al passaggio dalla luce all’ombra, ai riflessi. Per ricavare qualcosa da questo continuo mutare bisogna avere cinque o sei tele sulle quali lavorare contemporaneamente e bisogna spostarsi dall’una all’altra tornando rapidamente alla prima, non appena l’effetto interrotto riappare. È un lavoro veramente estenuante, ma quanto è seducente! Cogliere l’attimo fuggente, o almeno la sensazione che lascia, è già sufficientemente difficile quando il gioco di luce e colore si concentra su un punto fisso, la silhouette di una città, un paesaggio immobile. Ma l’acqua, essendo un soggetto così mobile e in continuo mutamente è un vero problema, un problema estremamente stimolante perché ogni momento che passa la fa diventare qualcosa di nuovo ed inatteso. Un uomo può dedicare l’intera vita a un’opera simile; io l’ho fatto per otto o nove anni e poi ho smesso improvvidamente colmo d’inspiegabile angoscia».

 «Come mai?» chiesi.

«I colori non avevano più la stessa intensità per me; non dipingevo più gli effetti della luce con la stessa precisione. Le tonalità del rosso cominciavano a sembrare fangose, i rosa diventavano sempre più pallidi e non riuscivo assolutamente a captare i toni intermedi o quelli più profondi. Le forme, quelle riuscivo ancora a vederle con la stessa chiarezza e a disegnarle con la stessa precisione. Inizialmente volevo continuare. Passavo il tempo qui presso il ponticello, proprio dove siamo adesso, e stavo ore e ore sotto il sole cocente protetto dal mio parasole sulla mia sedia pieghevole, costringendo me stesso a continuare il mio compito interrotto e a ritrovare la freschezza, ormai svanita, della mia tavolozza! Tutto vano. Il mio quadro diventava sempre più scuro, sempre più “antiquato” e, appena finita la sofferenza, lo confrontai con opere precedenti. Mi venne un attacco d’ora e lacerai tutte le tele col mio temperino. Naturalmente non c’è bisogno di dire che nel frattempo avevo consultato tutti i migliori oculisti che potei trovare. Rimasi sgomento per le opinioni contraddittorie che mi furono espresse. Qualcuno mi disse che era la vecchiaia e il conseguente e progressivo indebolimento degli organi; altri e secondo me avevano ragione loro, mi fecero capire tergiversando non poco che mi stavano venendo le cataratte e che in futuro un’operazione mi avrebbe potuto guarire. Furono comunque cauti nel dirmi che il lento progredire dei miei sintomi dimostrava che ci voleva ancora tempo perché la mia affezione si sviluppasse appieno e che quindi ci sarebbero voluti degli anni prima di poter fare l’intervento. Comunque, tutti erano d’accordo su un punto: la necessità di assoluto riposo. […] Giunse infine un giorno, un giorno benedetto, quando ebbi la sensazione che mia malattia fosse provvidenzialmente passata. Provai una serie di esperimenti per rendermi conto dei limiti e delle possibilità della mia vista e con grande gioia scoprii, nonostante fossi ancora insensibile alle ombreggiature più fini e alle tonalità dei colori visti da vicino, che i miei occhi non mi tradivano se facevo qualche passo indietro e assimilavo l’immagine nel suo insieme. E fu questo il punto di partenza per le composizioni che state per vedere nel mio studio. Un punto di partenza molto modesto, naturalmente. Ero esitante e non volevo lasciare niente al caso. Cominciai pian piano a mettermi alla prova facendo innumerevoli schizzi che mi portarono alla convinzione che, in primo luogo, lo studio della luce naturale non era possibile per me, ma d’altro canto mi rassicurarono dimostrandomi che, anche se minime variazioni di tonalità e delicate sfumature di colori non rientravano più nella sfera delle mie possibilità, ci vedevo ancora con la stessa chiarezza di prima quando si trattava di colori vivaci, isolati all’interno di una massa di tonalità scure. Come avrei potuto trarne vantaggio?Gradualmente giunsi ad una decisione. Da quando avevo passato la sessantina avevo in mente di riprendere ciascuna delle categorie di soggetti ai quali avevo lavorato nel corso degli anni e di creare una specie di sintesi, una specie di summa summarum, in una o forse due tele, di tutte le mie precedenti impressioni e sensazioni. Ma poi avevo abbandonato l’idea, per ché avrebbe richiesto molti viaggi e tanto tempo per rivisitare i vari luoghi della mia vita di pittore, uno dopo l’altro, per catturare di nuovo le mie passate emozioni. E ormai viaggiare mi affatica. Perfino brevi gite in automobile, di due o tre giorni, mi mettono a dura prova. Cosa mi avrebbe provocato un viaggio di diversi mesi? E inoltre volevo restare qui, dove sono felice. Mi sono affezionato ai fiori del mio giardino a primavere e d’estate alle ninfee nel mio stagno sull’Epte; danno sapore alla mia vita, giorno dopo giorno. Quindi avevo accantonato il progetto. Le mie cataratte me lo fecero riprendere in considerazione. Avevo sempre amato il cielo e l’acqua, il verde, i fiori. Tutti questi elementi potevano essere trovati in grande abbondanza qui nel mio piccolo stagno. Talvolta, di mattina o di sera (ho smesso di lavorare durante le ore di luce piena e di pomeriggio vengo solo a riposarmi) mentre lavoravo ai miei schizzi, mi dissi che sarebbe stato interessante fare una serie di impressioni di insieme in quei momenti del giorno, quando la mia vista sarebbe stata probabilmente più precisa. Attesi che l’idea prendesse forma, che la disposizione e la composizione dei motivi si imprimessero a poco a poco nella mia mente e poi, quando giunse il giorno in cui mi sentii di avere sufficienti assi nella manica per tentare la fortuna con una reale speranza di successo, mi decisi ad agire e agii. Sono sempre stato un uomo caparbio, una volta presa una decisione. Su due piedi chiamai un muratore, un uomo onesto con una piccola impresa, coscienzioso, che sapeva fare il suo mestiere. Facemmo un progetto, molto semplice, per uno studio più grande dell’usuale, lungo venticinque metri, largo quindici. Solide mura, nessuna apertura eccetto una porta. Due terzi di vetro. Gli operai iniziarono a scavare le fondamenta il primo agosto. Poi vennero la mobilitazione generale e la guerra. Il mio costruttore non aveva più operai. Il materiale da costruzione non poteva più essere portato a destinazione. Ci vollero sei mesi per iniziare a costruire. Non fu finito che nella primavera del 1916. Allora, quando i lavori furono più o meno terminati, mi misi all’opera. Sapevo cosa potevo e volevo fare. In due anni ho completato otto dei dodici pannelli che avevo progettato […]»

30

 Eravamo arrivati al nuovo studio. Entrammo e i miei occhi si spalancarono dalla meraviglia. Claude Monet aveva ampliato il suo motivo originale con una nobiltà, un generosità ed un decoro totalmente inattesi. Utilizzando un processo di composizione la cui semplicità è uno dei tratti più felici, aveva dipinto lo stagno con le ninfee dalla prospettiva del viottolo che lo circonda e ogni tela rappresentava ogni punto di osservazione che egli aveva scelto. Erano tutte della stessa altezza – approssimativamente 1,80 m. Le larghezze variavano: alcune erano 4, altre 6 o 8 metri. Come ambientazione generale aveva preso più o meno ciò che la natura stessa gli offriva. In alcuni quadri lo specchio d’acqua era incorniciato da tronchi nodosi di salici piangenti, ed in altri, dove la natura non gli dava alcun motivo per limitare i bordi della tela, aveva schivato ogni artificio concentrando l’attenzione dell’osservatore sull’acqua stessa. Nessuno dei quadri era stato eseguito nella luce piena del mezzogiorno. Gli effetti erano quelli delle nebbie dell’aurora o della mezza mattinata, con una luce molto morbida e nitida, oppure del pomeriggio col tramonto, o dell’ultimo raggio di luce, del crepuscolo e della notte. Già questo era sufficiente per permettere di vedere i soggetti in una inimmaginabile varietà di aspetti. E, per quanto riguarda l’effetto del colore era letteralmente prodigioso. Su una basa chiara o scura, quasi nera, con sfumature di verde, il modo delicato dell’artista di distribuire i colori permetteva ai porpora e ai gialli, agli ametista e ai rosa, al viola e al malva di esprimersi alla perfezione. Poggiando sulle loro larghe e piatte foglie le ninfee alzavano con discrezione le loro corolle circondate da cupole verdi e il centro della composizione era quasi sempre vuoto, ma in un senso molto relativo per ché era proprio lì che il pittore aveva concentrato il gioco di luci e di riflessi sulla superficie scintillante dell’acqua calma, dell’acqua increspata o mossa da leggere onde. Là il riflesso del piccolo cumulo di nubi che attraversava il cielo sembrava galleggiare dolcemente, tinto di rosa o del color del fuoco, oppure si potevano veder scorrere brandelli di nebbia che si levava all’alba. L’intera scena luccicava con la brillantezza del sole ormai morente i cui ultimi raggi rifulgevano come flutti d’oro in un cielo grigioperla e turchino.

33

Tutto quanto era di un’incredibile sontuosità, ricchezza, intensità di colore e di vita. Per un momento pensai che il vecchio mi avesse preso in giro raccontandomi della perdita della sua vista, ma mi convinsi del contrario quando lo accompagnai nel suo studio dove era solito lavorare ogni giorno e osservai venticinque o trenta opere che aveva scartato, opere che risalivano al periodo in cui, dopo l’inizio della sua infermità, imperterrito, aveva continuato a lavorare. Le note di colore di queste opere erano tremendamente fuori tono e nonostante l’artista fosse presente nel disegno, nel talento per la composizione e nell’effetto d’insieme, il colorista sembrava essere svanito nel nulla; restava impossibile sondare il mistero del miracolo raggiunto.

«Non vi scervellate per questo» mi disse Monet.

«Se ho riguadagnato il mio senso del colore nelle grandi tele che vi ho appena mostrato è perché ho adattato i miei metodi di lavoro alla mia vista e perché quasi sempre ho buttato giù i colori a caso, da un lato fidandomi unicamente delle etichette sui tubetti e dall’altro seguendo la forza dell’abitudine, facendo affidamento sul modo in cui ho sempre steso le tinte sulla mia tavolozza. […] La mia infermità talvolta è rientrata e che, in più di un’occasione, la visione dei colori è tornata com’era ed io ho approfittato di questi momenti per lare le necessarie rettifiche». 

Quindi è piuttosto alla nascente cecità che a qualsiasi progetto premeditato che dobbiamo le composizioni che Camille Lefèvre ha collocato in un’ambientazione oltremodo adeguata, in una cornice di grande gusto e purezza. Gli spazi di forma ellittica creati dall’architetto del Museo Nazionale non sono quelli che Monet aveva concepito in un primo momento. Egli aveva in mente una vasta rotonda nella quale le sue tele sarebbero state collocate alle pareti come un panorama e ci vollero molte lunghe discussioni tra lui ed il suo ‘direttore’ prima che egli accettasse di proseguire con l’idea dell’architetto. Non poté provare la gioia di vedere la sua opera affissa alle pareti prima della sua morte e così egli non poté mai vedere la sua opera assumere il suo pieno significato, e il suo intero potere suggestivo. Ma almeno morò con la certezza che qualsiasi fosse la sua qualità, la sua opera sarebbe stata mostrata al pubblico nelle migliori condizioni. […]

Concludiamo con un aneddoto che mi riferì Georges Clemenceau il giorno dell’inaugurazione:

«Una volta noi due uscimmo dal Louvre e io dissi a Monet: “Se avessi il permesso di portarmi a casa un dipinto prenderei ‘Un funerale a Ornans’ di Courbet”.

Io No”, rispose Monet, “io prenderei l’ ‘Imbarco per Citera di Watteau”».

Questa semplice frase sintetizza in pieno la carriera di Monet e la sua evoluzione finale. Come Watteau, questo ‘realista’ puro si batteva incessantemente per raggiungere il suo ideale, ed è per questo che c’è tanta magia nella sua arte[4].

N.B. Grazie per la gentile attenzione! Vi diamo appuntamento con la seconda parte di questo viaggio nel regno delle Ninfee di Claude Monet.

© Riproduzione riservata

Bibliografia:

-Gérard-Georges Lemaire in Art e Dossier, allegato al n. 48, Firenze, Giunti Editore, luglio-agosto 1990.

-Claude Monet, “Mon Historie. Pensieri e testimonianze”, a cura di Lorella Giudici, Abscondita, Milano, 2009.

-Daniel Wildestein, “Monet o il trionfo dell’Impressionismo”, Taschen, 2010.

[1] Claude Monet in occasione dell’incontro con lo scrittore danese Herman Bang nel febbraio 1895 presso la masseria degli artisti nel villaggio di Björnegaard, vicino Sandviken e a quindici chilometri dalla città di Oslo (conosciuta anche come Christiania) in Norvegia, città ove risiedeva Jacques Hoschedé, figlio maggiore di Alice, seconda moglie del pittore.

[2] René Gimpel, “Diario di un mercante d’arte”, 1966.

[3] René Gimpel, in Ibidem.

[4] L’articolo di François Thiébault-Sisson venne pubblicato in La Revue de l’Art Ancien et Moderne, Parigi, giugno 1927;  riportato da Gérard-Georges Lemaire in Art e Dossier, allegato al n. 48, Firenze, Giunti Editore, luglio-agosto 1990

2 pensieri riguardo ““L’ULTIMO AMORE DI CLAUDE MONET”: LE NINFEE DELL’ORANGERIE (PARTE PRIMA) IL RICORDO DI RENÉ GIMBEL E FRANÇOIS THIÉBAULT-SISSON”

  1. La visione delle sale ellittiche dell’Orangerie delle Tuileries è da sola un sogno ad occhi aperti.
    Ma, a parte la semplicità sontuosa delle sue opere, mi stupisce come Monet avesse aggirato l’ostacolo della sua nascente cecità.
    Straordinario resoconto, straordinario

    "Mi piace"

Lascia un commento